Cavadini

Il paese più straziato è la mia carne, recensione di Mattia Cavadini

Salutata come una delle poche opere prime davvero notevoli (G. Isella), come un esordio impeccabile (M. Cucchi), la raccolta di poesie Qualunque sia il nome (Casagrande, 2003) di Pierre Lepori ha come oggetto la descrizione del paesaggio straziato del corpo, che porta i segni del represso, del negato, del non-detto; un corpo ferito da « coltelli », disidratato dal « non-amore », che porta « sul fondo della gola » un nodo familiare fatto di falsificazioni e silenzi, di omertà contegnose. Un corpo che si pone come quadro clinico tangibile di una sofferenza più sottile, psicologica, taciuta per anni, troppi anni perché la carne non si ribellasse.

Il corpo si ribella sia al bene sia al male / i muscoli si allacciano e rintrecciano le gambe/ e la voce sul fondo della gola
/ (il contrarsi di due muscoli e la corda
vocale di sinistra che non vuole
tendersi / e altre parti di te che fuoriescono
/ come se avessi ammutolito troppe cose
perché il corpo non si ribelli).

Per descrivere questo paesaggio straziato Lepori si serve di una poesia musicale, fatta di secchi clangori, accensioni bibliche, impennate visive che increspano un linguaggio altrimenti piano; una prosa poetica capace di adattarsi alle tensioni del corpo, alle oscillazioni dell’anima, ai soprassalti della coscienza. L’ideale di questa lingua è la folgorazione visiva, che nasce dalla frequentazione del profondo, dove si annidano gli archetipi (il fuoco, l’acqua, le madri,…) ma anche tutta una « arenaria di ricordi« : quel « lago nero » del represso, del rimosso, quella « città sommersa » che va colta nella sua dissonanza ( « cocci dissonanti« ), nei suoi gridi stridenti, con la speranza che questo « piantare un grido esattamente al centro del gorgo » possa diventare canzone, una canzone in grado di raggiungere « le finestre del disprezzo passato« , ovvero colpire, in una sorta di battaglia dapprima privata e quindi pubblica, il fulcro di tanta angoscia e sofferenza. Ma andiamo con ordine, anche perché la raccolta di Lepori è grande soprattutto per la sua dimensione poematica: vero e proprio viaggio, indagine, ricerca, come in Edipo. D’altronde solo chi va alla ricerca delle verità profonde, scrive Lukacs nell’Anima e le forme, raggiungerà alla fine del cammino la meta non ricercata, la vita, la sua vita, se stesso.

Il viaggio inizia con la discesa nel maelstrom: l’orrore del domicilio. E’, questa, l’immersione nel silenzio del « guscio« , nella sordità della famiglia, in cui vigono le leggi dell’inerzia, dell’immobilismo (« ogni generazione è un catenaccio« ), affinché tutto resti uguale nei secoli dei secoli. I ruoli si tramandano come una condanna: i figli diventano padri, nella supina accettazione del « dovere« , nel silenzio affettivo. Ma è un « silenzio di pace incancrenito sino all’artiglio« , e contro questo silenzio si leva allora « improvviso nelle viscere un sussulto« . E’ una prima ribellione, che « rompe il guscio dell’immobile paura« , ma che consegna la voce poetica ad una solitudine di « sterpi ». Il tentativo, una volta rotto l’orrore del domicilio e riconosciuta, a furia di parole (« quante parole per avere voce sul silenzio« ), la propria diversità (« diverso dalla loro volontà« ), è quello di aggrapparsi alle cose (« le cose che continuano ad essere« ), alla natura. Ma anche qui non c’è consolazione: « troppo poca consolazione ti ha concesso quel cielo illividito« , « i campi sono sempre desolati, anche d’estate« . E allora, per un attimo, non si sa « in che direzione continuare« . « L’orizzonte è ormai vuoto« . Non c’è nessuno che chiama, nessuno che risponde. Il guscio familiare non tollera infrazioni alle leggi di sempre, non sopporta gli imbastardimenti (« figlio bastardo di parole« ). Indietro non si può tornare. Davanti c’è la realtà quotidiana, fatta di piccole cose, che va affrontata. Ecco allora che la poesia imbocca questa strada, mettendo in campo microstorie puramente denotative (Mattinale, Sera, Fine della corsa), in cui Lepori riversa una grande capacità narrativa, ma che subito abbandona, rivendicando implicitamente il valore gnoseologico della poesia: o essa serve a qualcosa, o è un’operazione estetica cui inclinare solo di rado. E ciò cui deve servire la poesia è ancora una volta la domanda di sempre « chi sono io? ». E per rispondere a questa domanda non c’è che una possibilità: mettersi a nudo, mostrare il proprio corpo, la propria carne, il paesaggio dell’anima, pur sapendo di entrare in una landa solitaria:

Ma quando il buio si fa fitto sulle cose
/ e attutito è il calore dell’istante /
non resta che andare più a fondo
/ e nessuno ti accompagna, / più a fondo
la montagna è senza nome.

Il viaggio diventa intimo: il cuore messo a nudo. Si espongono i segni che la sofferenza ha inciso sul corpo (« le prigioni del corpo », « la rigidità del collo », « l’emicrania », « cervicali« ): è una discesa nel profondo, « a capofitto« , affrontando « immagine dopo immagine » tutti i ricordi, nominandoli, senza arretrare di un passo, pur sapendo di incenerire in questo modo tutto quel « non-detto affettuoso » che caratterizzò l’esistenza nella domus: « tutto il fiorire, poi, sarebbe stato fiorire di ceneri« . E’ un percorso difficile da pronunciare (« da quel giorno un demone di parole ti assilla/ti spinge a fondo, la testa nell’acqua scura« ). E’ una discesa nell' »angoscia stagnante« , che sottrae l’io-lirico a qualsivoglia contatto con il mondo esterno (« il calore ormai inudibile del cielo« ). Mondo, anzi, che viene descritto nel suo aspetto incontrovertibile, nella solidità di rocce, pietre, vallate che non danno scampo. E anche il cielo appare immutabile. E’ questo il punto infimo del viaggio: momento in cui all’io-lirico non si danno appigli: il mondo intero, la stessa natura, nella sua immutabile solidità, sembrano negare e vanificare il percorso rigenerativo (giacché non si dà descensus ad inferos senza rinascita) che la voce poetica sta mettendo a nudo. Tant’è vero che la prima sezione si chiude emblematicamente con l’interrogativo angosciastico: « arrivi in fondo e sei disperato come prima? »

Epperò la discesa non è stata inutile. E’ servita a far chiarezza, ad aver « coscienza del vero« . E questa consapevolezza, d’ora in avanti, non abbandona la voce poetante, che può affrontare l’angoscia con un sottile distacco, quello necessario per riconoscerne i sintomi, i segni che ciclicamente affiorano sulla pelle. Nasce così la sezione Forme d’acqua: una sorta di sintomatologia della sofferenza privata, che individua la patologia nel disequilibrio fra acqua e fuoco, la cui soluzione (la nebbia) appare però come il male peggiore: una sorta di scudo di fronte all’orrore del mondo. E allora è meglio « scendere verso il buio degli opposti » (perché il mondo è bene e male); accettare la tensione, esporsi a quella ferita attraverso cui l’universo entra in noi (« il corpo è un muro / nella cui cinta calare in silenzio« ), e il nostro essere cola verso il mondo. Per questo occorre essere la ferita e il coltello, perché solo così, attraverso l’interstizio della ferita inferta e subita, la luce può penetrare fin dentro il cuore di tenebre. E allora ecco che la ferita subita, viene inferta con « rabbia » nella seconda parte del libro (Fratelli). Rabbia per chi si pone al di qua del bene e del male: appagato, tranquillo, dentro le sue frontiere ideali e ideologiche. La rabbia assurge così a forza politica che forse può sfrangiare quelle frontiere. Può forse dare la scossa che modifichi il vero male: la falsificazione, l’indifferenza, l’omertà. Nella poesia di Lepori c’è un immenso odio e un’immensa pietà, secondo la traiettoria che si trova nella poesia di Rimbaud di cui il libro offre una versione personale: « vertigine, franamento, deriva e poi pietà« . Pietà che chiude il primo libro, in cui l’io-lirico riemerge dal fondo e guarda « con tenerezza gli oggetti » e scopre il suo corpo segnato da parole (e quindi dalla possibilità di dire) e non solo da sofferenze.

Ed è proprio questa scoperta, quella di avere un corpo « disegnato » di parole, la grande conquista gnoseologica da cui esce arricchito l’io lirico. Tanto che, in Fratelli, con uno sguardo più distaccato, una sorta di « ripresa dall’alto« , si ripercorre la traiettoria « vertigine, franamento, deriva e poi pietà« , rendendo pubblico quello che prima era apparso privato. E’ questa la parte politica (così la definisce l’autore) del libro: nel senso che in essa il dolore diventa forma di rappresentazione del mondo e della realtà, diventa lente attraverso cui guardare le cose, smascherandone il lato oscuro, il non-detto, la loro intima verità. La ferita subita consente di vedere ciò che si nasconde dietro la ferita del mondo, dietro le relazioni sociali. Ma per fare questo è stato necessario parlare, mostrare la pelle aperta e pulsante, quel lento « scivolare all’infinito sulla lama« . Solo in questo modo è stato possibile liberarsi dal « rancore » e da tutto ciò che covava nel profondo (« liberato dal di dentro« ). Non che questo consegni l’io-lirico alla pacificazione: anzi, il suo percorso continua ad essere amaro e solitario: « è ancora questa amara solitudine da sconfiggere« , « è sempre ancora deserto« . Eppure qualcosa è cambiato: il fatto di essersi messo a nudo gli ha consentito di riconoscersi in una comunità , in una coralità di fratelli (« un primo noi levato« ). E soprattutto gli ha consentito di distanziarsi da quel guscio familiare che lo condannava al silenzio e all’inesistenza. Eccoci dunque alla meta ultima del viaggio: non già la salvezza, ma la riappropriazione di se stesso, del proprio corpo. E anche questa riappropriazione non è totale, perché « cucite direttamente sulla pelle » restano le maschere del passato, i torti subiti, le ferite che i « coltelli di ieri » hanno disegnato e inciso sulla carne una volta per sempre. Insomma, una riappropriazione parziale, che non risarcisce del passato, ma che traghetta l’io-lirico « oltre la sponda », consegnandolo a se stesso, alla sua vita, fatta « d’angoscia » e di « luce« , come è la vita di tutti. Ecco, dunque, l’alta motivazione gnoseologica di questa poesia: l’aver condotto l’io lirico a se stesso, averlo inradicato nella sua diversità, nella sua assenza di domus, assumendo questa assenza e questa diversità come la sola patria poetica ed esistenziale possibile.

Mattia Cavadini« Bloc notes »
49, giugno 2004

Qualunque sia il nome