COME CANI

Perché Thomas ha rimosso una parte del suo passato? Un’infanzia solitaria nel ventre di Napoli, un padre altero e geniale, una “mamma pazza”. E poi la giovinezza, spesa all’ombra dei grandi conflitti di fine Novecento, come fotografo di guerra. Tra Berlino, Barcellona e Milano, dove è diventato un artista di successo, ha costruito un tessuto di instabili affetti che non sembra più preservarlo. Quando si trova al capezzale della sorella, in una valle sperduta delle Prealpi svizzere, la vita sembra farsi sempre più minacciosa. Eppure l’incontro con un ragazzo strambo, soprannominato Mork, con un medico di campagna e con una giovane insegnante di disegno sembra aprirgli l’orizzonte di un’alleanza. Ma è davvero possibile sfuggire al peso degli anni?


Come cani, Edizioni Effigie, Milano, 2015.

Edition française : Comme un chienEditions d’en bas, 2015


Intervista di Massimo Zenari (RSI-Rete2), con Pierre Lepori e Mathilde Vischer in diretta dalle Giornate Letterrie di Soletta, 17 maggio 2015.
Il libro della settimana, Moby Dick (RSI-Rete2), in diretta da Morges (intervista di Roberto Antonini), 6 settembre 2015.
Il segnalibro, RSI – RETE2, 06 ottobre 2015 (Daniele Bernardi)
Der erste Satz! Warum genau so und nicht anders?
Franz Kasperski, SRF/Televisione Svizzera

Rassegna stampa:

Un entusiasta che crea personaggi angosciati (Manuela Camponovo, Giornale del Popolo, 2 agosto 2015 (jpg)

Iniziamo dal nuovo romanzo ”Come cani”: un protagonista con madre pazza, padre gelido e geniale, un fratello morto, l’amico del cuore che si è impiccato sullo sfondo della guerra dei Balcani, una sorella agonizzante, un ragazzo affetto da Sindrome di Asperger, una morte violenta prima della fine… tutto questo in un centinaio di pagine, non è un po’ troppo?
Che io abbia un temperamento melodrammatico non è un mistero; ivi compreso nella contraddizione tra la violenza concisa della scrittura e la mia personalità prolissa. Sono un ottimista sempre pronto a nuove battaglie, un entusiasta rompiscatole. Al contrario, i miei personaggi sono insabbiati in sensi di colpa, rimpianti e atti mancati. Probabilmente sono un angolo cieco della mia vita interiore, rappresentano il terrore che ci accomuna tutti: siamo fondamentalmente soli e intorno abbiamo un mondo di rovine, perché negarlo? Thomas, in Come cani, si trova al capolinea di una vita ricca ma tragica, in cui s’incrociano le sconfitte personali e quelle della storia – rappresentata dalla figura luminosa dell’amico suicida, ispirato al militante ecologista sud-tirolese Alexander Langer (1946-95). Perché questo pessimismo? Cerco di non pormi la domanda. Non ho piani prestabiliti, storie da raccontare, non credo di essere un narratore realista (nonostante il melodramma); mi accontento di studiare l’intimità di uomini e donne fuori norma, lacerati, a volte ridicoli; li accompagno sulla pagina, con una grande attenzione alle atmosfere e ai corpi, perché non risultino semplici ombre. Quest’ultimo romanzo deve molto ad alcune letture: Yôko Ogawa, Marie NDiaye e l’ombra lunga di Kafka da cui è tratto il titolo. Il resto lo fanno loro, i personaggi.

Anche per questo romanzo è stata pubblicata una doppia versione: in italiano e francese; qual è la lingua di scrittura e quale quella di (auto)traduzione?
La prima versione è in italiano, la lingua più spontanea, anche se sto perdendola come una pelle di serpente. L’autotraduzione è faticosa, ma corrisponde a una ricerca sulle radici, sui legami, in senso totalmente anti-essenzialista (vale a dire che cerco d’inventare modelli identitari fluidi). Questa pratica bilingue è comunque dovuta alle circostanze: la vita a Losanna, il compagnonnage con l’editore Jean Richard, l’amicizia col filosofo Arno Renken: di qui nasce la volontà di restare a cavallo tra due idiomi, di lavorare sulle incertezze identitarie, le zone a margine, i balbettamenti. Nel Crepuscolo degli idoli, Nietzsche dice «temo che non la faremo mai finita con Dio, se continuiamo a credere nella grammatica»… non parla del Dio cristiano, ma dell’illusione dell’Origine monolitica, della Legge. Credo che lo scrittore abbia il dovere di mettere sottosopra il linguaggio e la vita. Si tratta di un gesto letterario e politico: il dubbio sulla dicibilità del reale, la coscienza della costruzione culturale del nostro sguardo, ci consentono di liberarci dai vecchi modelli, dagli obblighi che rendono doloroso il cammino dell’uomo. Che intralciano la libertà di amare.

Centrali sono i rimandi fotografici: una fotografia in copertina (di Duane Michals), il protagonista fotografo; ci sono diverse citazione al riguardo; che rapporto hai con la fotografia e questo interesse quanto influenza la tua scrittura narrativa?
C’è sempre un elemento colto e visivo, in questi romanzi. Il cinema in Grisù, la danza e il teatro in Sessualità; progatonista di Come cani è un fotografo e in un romanzo futuro (Le città viste dell’alto) sarà una musicista. È un procedimento un po’ snob, ma non posso fingere di non essere quel che sono: un intellettuale che brucia di vera passione per l’arte e la cultura. Sulla “Tribune de Genève”, Lionel Chiuch ha scritto a buon titolo: «I personaggi sono impastati di cultura, che non è mai però un rimedio, quanto piuttosto un prolungamento dei loro dubbi e delle loro lacerazioni».

Mi puoi anticipare qualcosa degli altri libri in preparazione?
Il primo, Silk, è un falso-racconto per bambini, scritto in un francese scombiccherato, con le illustrazioni del collettivo Indigène (Andréanne Oberson e Jean-Marie Reynier), uscirà a Ginevra per le edizioni Notari. Ho poi finito un nuovo romanzo (Effetto notte) e un libro di poesia, che uscirà in edizione bilingue in collaborazione con Mathilde Vischer. Difficile parlarne con più chiarezza, è un cantiere caotico in cui i testi nascono come funghi velenosi. Non pianifico la scrittura, lascio maturare le cose; e le pubblicazioni si fanno, il più delle volte, grazie a incontri, passioni comuni, dialoghi. Per Come cani è stato determinante il rapporto con Anna Ruchat, scrittrice eccezionale che ha curato l’editing, e con l’editore-fotografo Giovanni Giovannetti. Devo ammettere di avere fortuna.

Dopo anni di critica e saggistica teatrale, hai deciso di fare il grande passo e di porti dall’altra parte del palcoscenico: hai fondato una compagnia teatrale e da settembre seguirai una scuola di regia. Tra l’altro il tuo primo spettacolo (a fine marzo) sarà l’adattamento del tuo primo romanzo (”Grisù”). Perché questo cambiamento di rotta?
Adoro il giornalismo, il mestiere di critico teatrale in particolare. Sono stato corrispondente per diciotto anni a Rete2 e ho fondato e diretto due riviste. Però col tempo mi sono accorto che – nonostante fosse così strabordante – l’attività creativa restava relegata in un angolo; fare teatro, che è pur sempre la mia passione profonda, è un modo per rimettere al centro le cose che contano, per darsi tempo. Ho una grande fortuna: a Losanna esiste una scuola universitaria prestigiosa (la Manufacture) che offre un master di regia su tre semestri. Penso che mi darà nuovi strumenti e idee, e mi permetterà incontri importanti. La compagnia di teatro (www.tt3.ch) è nata, come al solito, perché sono impaziente, non mi andava di aspettare e ho trovato collaboratori entusiasti per cominciare. Mi ci butto con una certa incoscienza, ma anche per non addormentarmi sugli “allori” di quel che so già fare.


(…) Lepori ci consegna un romanzo coraggioso, anzitutto dal punto di vista formale, capace di muoversi su più piani. I momenti migliori si trovano nell’evocazione suggestiva, di grande intensità poetica, di un paesaggio prealpino scialbo e angoscioso; e di riflesso del suo tessuto sociale, in cui si esprime al meglio il suo sguardo critico e anti-retorico. Anche dal punto di vista narrativo, pur in un racconto piano, fatto più di atmosfere e allusioni che di eventi, una svolta improvvisa ma significativa arriva a ferire le ombre di un inverno immobile, e forse la coscienza del lettore. Per il resto, l’impressione è che il romanzo mantenga una distanza cerebrale con il lettore, figlia di un approccio dell’autore a tratti concettoso, che plasma pure la storia personale del protagonista e le sue riflessioni, alle prese con un saggio impossibile sulla sua arte. IL pessimismo esistenziale di Lepori, poi, si distende su tutto – ersone luoghi fatti cose sentimenti – fino a risultare una condizione a priori, gratuita; se non, nel finale, involontariamente parodica

Claudio Lo Russo, “La Regione”, 22 gennaio 2016


(…) Quest’ultimo romanzo (che, non a caso, è incentrato sulla figura di un fotografo, cioè su chi lavora come il poeta sulla purezza dell’immagine), non è uno di quei libri la cui corsa folle imbriglia il lettore trascinandolo verso risvolti ignoti. La peculiarità di Lepori è un’altra. Come per alcuni autori scandinavi (penso, ad esempio, al recente caso di Stephan Enter e al suo romanzo La presa) qui è una certa consistenza della voce a catturare il lettore e ad avvolgerlo in una specie di nebbia. (…)
Daniele Bernardi, Azione, 14 settemb re 2015         


Lepori ci consegna col suo ultimo lavoro un romanzo dai toni cupi, ma non privo di lampi onirici e poetici. (…) Forse troppa la carne al fuoco per un libricino di 100 pagine, in cui i personaggi hanno la loro importanza? Forse, ma malgrado la sua concisione, il libro invoglia alla lettura, grazie a una scrittura ritmata, di volta in volta narrativa, riflessiva, descrittiva e intima. Un bel romanzo che trascina il lettore nella spirale dei pensieri del protagonista, consegnandoci nel contempo splendide descrizioni di paesaggi, “come un prolungamento segreto tra sguardo e macchina”.
Sandro Monti, Corriere del Ticino, 21 settembre 2015


(…) Attraverso il ricordo-ossessione di Alex, ispirato alla figura dell’altoatesino Alexander Langer, pacifista nei Balcani, per la prima volta la scrittura dell’autore si àncora alla dimensione storica. Come in una metamorfosi kafkiana, Thomas, descritto costantemente per negazioni, diventa egli stesso un cadavere vivente in preda ai fantasmi del passato inefficacemente rimossi. In tale condizione è chiamato nel mezzo delle ovattate e chiuse valli svizzere ad accompagnare gli ultimi giorni della sorella gravemente malata. Con lei, con il giovane Mork e con gli altri personaggi del piccolo villaggio che man mano emergono dalla nebbia, Lepori non tralascia i topoi prediletti delle sue prose e poesie: i legami familiari e i fragili equilibri della psiche, smantellando il concetto di normalità. Questi temi sono per la prima volta trattati con il distacco e il controllo di una narrazione in terza persona, più consona alla riflessione centrifuga del romanzo insito nella storia, un poco meno a trivellare l’io senza sosta, così come lo scrittore ci aveva ben abituato. (…)
Sara Lonati, Viceversaletteratura, ottobre 2015


Per la terza volta il poeta-romanziere Pierre Lepori s’inoltra nei meandri pericolosi del ricordo familiare. Ma in questo caso, nonostante la focalizzazione sul personaggio principale, sceglie il racconto in terza persona, fitto di riferimenti letterari (in particolare kafkiani) e di citazioni colte (la storia della fotografia, come doppio visivo all’ingolfarsi – voluto – della narrazione); quasi a voler abbandonare Thomas, il protagonista, al suo destino. Il risultato è straniante, lascerà probabilmente delusi i lettori che “vogliono capire”, che chiedono alla finzione romanzesca di “elucidare”. Quel che qui si propone è invece un viaggio verso il buio, verso un nodo oscuro di nonsenso, come il ragno-allucinazione di Karin, la ragazza schizofrenica di Come in uno specchio di Igmar Bergman. Le atmosfere bergmaniane non sono dunque per Lepori un puro esercizio di stile, ma la materia stessa di un nichilismo allucinatorio. In questo sta la difficoltà e la forza del romanzo: senza concessioni.
Andrea Landini, “Rivista italiana di letteratura e arte”, n°14, 2016.


(…) Nei giorni trascorsi con Caterina si sente avvolto in una pace nuova, un tepore, “un tacito consenso che ognuno ha la sua vita, e che il carico della famiglia non deve essere un tormento”. Le immagini di ieri si accavallano a quelle di oggi, e ripercorre inevitabilmente la sua vita. È sopraffatto dai ricordi dell’infanzia e della gioventù, Caterina a Londra, e lui, piccolo, con il fratello Giorgio a Napoli. Il padre, freddo e rigoroso, insegnante al Conservatorio e la madre, con la sua follia, in manicomio. Il trasloco da una città all’altra dell’Europa, dall’asciutto francese al dialetto dei quartieri spagnoli. Giorgio e Alex, l’indimenticabile amico del cuore, travolti dallo stesso tragico destino, la barbarie della guerra, la pulizia etnica e Alice, la donna della sua vita che è felice con un altro uomo, il diabete che ha consumato Caterina e lui che, dopo molti lutti, riesce a camminare “accanto alla morte senza abbassare gli occhi”. Come un uomo giunto al capolinea della sua esistenza, il nostro protagonista vuole lasciare una traccia indimenticabile nell’affetto altrui. Sono tanti i sensi di colpa, gli amori, le sconfitte e i rimpianti che racconta in un avvicendarsi di immagini e pathos in quei pochi giorni che mancano al termine dell’anno. Una storia bella e riflessiva, intima e tragica. Un libro poetico e molto commovente.
Teresa D’Aniello, SoloLibriNet, 10 dicembre 2015


(…) A prima vista, Come cani potrebbe sembrare un libro senza tempo, come i due precedenti romanzi di Lepori, ma non è così: la Storia questa volta è ben presente, e – si scoprirà – pesa sul protagonista come un macigno. Proprio la presenza della Storia, con l’ingombrante ombra della guerra dei Balcani e del massacro di Srebrenica, è forse la novità maggiore, in un libro tutto costruito sulla forza della fotografia, lavoro e credo del protagonista Thomas: «fotografare è pur sempre un modo di proteggersi», dice a un certo punto, «di sapere che gli istanti non sono il nulla, anche se corrono verso il nulla» (p. 10). La fotografia accompagna d’altra parte tutto il romanzo, che porta in copertina uno scatto del 1968 di Duane Michals. Ne ritma addirittura gli snodi narrativi principali. Se all’inizio infatti Thomas, appena atterrato in Svizzera, decide di lasciare la sua macchina fotografica in un armadietto della stazione di Ginevra, come a significare che sta prendendosi una pausa dal lavoro e che d’ora in avanti le immagini le descriverà a parole, la fotografia ritorna prepotentemente nella sua vita alla fine della prima parte, quando Mork regala al suo nuovo amico un piccolo apparecchio trovato per casa; e soprattutto ritorna alla fine, incarnandosi nel gesto liberatorio con il quale Thomas lascia cadere nel lago un rullino che – il lettore saprà perché – non ha alcuna voglia di sviluppare. È probabile che questo gesto equivalga al cosciente addio del protagonista alla fotografia, l’arte di cui ha vissuto e con cui ha creduto per anni di poter contribuire a redimere il mondo, soprattutto da giovane, quando svolgeva l’attività di reporter di guerra e quando, fermo nel suo pacifismo senza cedimenti, ancora credeva che «ogni volto salvato dall’oblio fosse una definitiva sconfitta della barbarie» (p. 94). La Storia ha dimostrato che non è così, erodendo le certezze di Thomas e dell’amico Alex, personaggio in realtà assente dal libro e ispirato dalla figura del pacifista sud-tirolese Alexander Langer (1946-1995), morto suicida proprio negli anni della guerra dei Balcani. Sotto questo aspetto, mescolando la finzione romanzesca alla Storia, il libro pone un grande interrogativo sul reale potere salvifico dell’arte in generale. Un interrogativo che ci concerne tutti, destinato a visitarci ancora dopo la lettura del libro.
Matteo Ferrari, La Balena Bianca, 27 novembre 2015


(…) Anche lo stile di Lepori è naturalmente fotografico: l’autore sa, come il suo protagonista, evidenziare il dettaglio giusto, rivelatore, sfocando ciò che sta attorno, sa inquadrare il paesaggio con esattezza di taglio, sa soprattutto dosare le ombre, spandendone in abbondanza. A un certo punto, con l’esaurirsi di quest’effetto rassicurante della fotografia (dell’arte) che si è mantenuta in tutta la prima parte del romanzo, si precipita nella seconda parte, assai più breve e anche, intuiamo, più importante per l’autore. Qui accade tutto quello a cui nella prima parte si è alluso, qui i ricordi più dolorosi prendono forma. Ci scappa anche il morto, e per qualche pagina la storia, come suol dirsi, si tinge di giallo: una giovane viene trovata uccisa, e viene sospettato Mork, che soffre, incompreso, della sindrome di Asperger. Soprattutto, questa è la parte in cui emerge dal passato sempre più vivido il ricordo del suicidio di Alex, figura ispirata al pacifista sudtirolese Alexander Langer. Qui la sofferenza di Thomas trova un accomodamento in una morte cercata, alla quale sopravvivrà il saggio sulla fotografia su cui Thomas ha lavorato nel corso di tutto il romanzo. La parte più importante, si diceva, è questa; ma noi le preferiamo la prima, per quel senso di mistero che la pervade e il pudore con cui i personaggi manifestano i loro sentimenti e tacciono i loro segreti, restando in attesa.
Claudio Morandini, “Fuoriasse”, 6, marzo 2016