FONDATORI

Il teatro nella Svizzera italiana 
La generazione dei fondatori (1932-1987), introduzione di Andreas Kotte, Bellinzona, Casagrande, 2008.

Esiste il teatro nella Svizzera italiana? Certamente: le testimonianze di una vita teatrale in questa regione tra le Alpi e la Lombardia risalgono fino alle soglie del XVII secolo, mentre ancor oggi sopravvivono magnifici edifici ottocenteschi, come il Teatro Sociale di Bellinzona. Ma la domanda che questo saggio si pone è piuttosto se esista un teatro della Svizzera italiana. Vale a dire un teatro di produzione autoctona, con caratteristiche proprie. La risposta a questa seconda domanda è assai complessa.

Il professionismo, sulle scene svizzero-italiane, è un fenomeno recente; i primi attori e registi, addirittura la prima « scuola », nascono nel 1932, con la creazione della Radio Svizzera Italiana. Da quel momento in poi anche il Ticino e il Grigioni italiano iniziano a sognare l’avvio di una tradizione teatrale professionistica e gli sforzi intrapresi – in una sostanziale povertà di mezzi – sono marcati da una netta volontà di « fondazione », che si appoggia su alcuni postulati ideologici forti: la sprovincializzazione, il decentramento, l’identità italiana in terra elvetica. Lo studio si suddivide in due parti: una analizza il pionieristico lavoro di Guido Calgari per professionalizzare la produzione teatrale (limitandola alla radio); l’altra segue le strategie con cui, nel secondo dopoguerra, numerosi artisti hanno costruito una storia teatrale, geograficamente marginale, ma non priva di sorprese. Per la prima volta vengono repertoriate e analizzate le testimonianze di una vicenda culturale appassionante, che permette di meglio capire anche l’attuale scena indipendente della Svizzera italiana. E un’intera regione, che si riflette nello specchio del suo teatro.

Intervista di Manuela Camponovo
(Giornale del Popolo, 10 dicembre 2005)

E’ la prima volta che si tenta di scrivere una « Storia del teatro nella Svizzera italiana ». La sua ricerca le è stata stimolata dal lavoro per il Dizionario Teatrale Svizzero?
Questa ricerca è la diretta conseguenza dei lavori intrapresi nel 1999 nel “cantiere” del Dizionario. Il DTS, per la Svizzera Italiana, poneva alcuni problemi ragguardevoli. Da un lato la mancanza di documentazione: era difficile immaginare che gli autori dei singoli lemmi potessero dedicarsi per mesi alla raccolta di materiale d’archivio, a compulsare la stampa, a chiarire le numerose zone d’ombra e i capitoli meno noti della nostra storia culturale. Il problema era però soprattutto “teorico”: una pur ricca fotografia di “ciò che è stato” il teatro nella nostra regione poteva falsare la visione, frammentandola. Era necessario trovare un’unità, che spiegasse alcune aporie tipiche del contesto teatrale locale, che si occupasse di temi forti come l’identità, il provincialismo (con le sue componenti politiche ed economiche), la discontinuità delle iniziative, nonché il difficile rapporto che la cultura ufficiale ha intrattenuto con il teatro “di base”. Ecco perché ho creduto necessario lavorare a una ricerca che da un lato approfondisse la componente documentaristica (come è proprio di ogni lavoro storico), dall’altro fornisse un quadro interpretativo agli sviluppi della scena svizzero-italiana.

In questo modo, si è potuta delineare l’idea di uno sviluppo unitario, seppure nella discontinuità, del teatro professionistico nella regione italofona?
La continuità c’è stata, anzi è stata fortemente perseguita, ma in modo ambiguo. Nel senso che, spesso inconsciamente, si è cercato di definire il senso di un “Teatro della Svizzera Italiana” (fino a creare, nel 1981 una compagnia con questo nome) che fosse portavoce di una cultura specifica: un teatro monolingue, professionistico, con una vocazione pedagogica e una forte attenzione al territorio (decentralizzazione). Questa linea “fondante” del teatro nella nostra regione ha fatto sì che dapprima si guardassero con sospetto le esperienze di grande valore artistico delle colonie tedesche del locarnese (von Laban, Bara, Flach); e in un secondo momento tutto il teatro “spontaneo” degli anni Settanta-Ottanta: un teatro del corpo, delle marionette, del plurilinguismo che si è scontrato (è un fatto storico) con una generazione del teatro di parola in gran parte uscita dai ranghi della radiotelevisione di stato.

Questo lavoro è temporalmente delimitato. Perché ha fatto coincidere il punto di partenza con il 1932, ossia la nascita della radio?
La limitazione temporale è fondamentale per garantire la corretta ricerca sulle fonti: il teatro è presente nella Svizzera Italiana fin dal Seicento, non era possibile spingersi con sufficiente precisione così indietro nel tempo. Altre ricerche lo faranno, almeno lo spero. La limitazione è stata però anzitutto concettuale: si trattava di stabilire in quale momento è nata una tradizione di teatro professionistico di produzione autoctona. Non vi sono dubbi: è grazie alla RSI, in particolare all’opera pionieristica di Guido Calgari, che per la prima volta è stato istituito un “centro produttivo” per il teatro, capace anche di assumersi il compito della formazione degli attori e dei registi. Calgari è stato, in questo contesto, a dir poco un genio: ha saputo trovare un equilibrio fruttuoso tra localismo e professionalismo, con capacità organizzative sbalorditive (sono attestate non meno di 600 sue regie radioteatrali in meno di dieci anni!). La radiotelevisione ha in qualche modo istituzionalizzato una “certa idea del teatro”, con ricadute sia positive che negative sul teatro del dopoguerra.

Quali le principali difficoltà che ha incontrato nel mettere mano ad un lavoro del genere?
Le fonti sono state il mio vero cruccio: se solo si pensa che non esiste una sezione “teatro” presso l’Archivio Storico di Bellinzona! Ancora una volta, non è solo un problema pratico: come insegna Le Goff il documento è quanto una società decide di mettere da parte, di conservare con valore di memoria; il fatto che nessuno abbia mai iniziato (come invece è avvenuto con la Theatersammlung a Berna) a raccogliere il materiale di quell’arte effimera che è il teatro, ci mostra fino a che punto la sua presenza è stata sottovalutata, addirittura da coloro che lo facevano in prima persona. Nel momento in cui la raccolta di materiale (interviste, copioni, locandine, articoli, lettere, rendiconti finanziari e contratti) è iniziata, i problemi sono gli stessi che incontra ogni storico: il documento non è mai, infatti, neutro, va interpretato, soppesato, collocato nel quadro complessivo…

Un capitolo molto ampio, più di settanta pagine, è dedicato al Festspiel. Come si situa questo genere (importato dal Nord) di rappresentazione popolare, con interventi musicali e canori, in un discorso limitato, come lei stesso tiene a precisare nell’introduzione, al teatro di prosa?
In molte manifestazione culturali della nostra regione è sottesa la domanda relativa all’esistenza (o meno) di una cultura svizzero-italiana, dunque il tema dell’identità. Pur esulando da una storia del teatro “di prosa” il Festspiel si presenta come una sorta di cartina di tornasole di questa tematica; ed è stato inoltre l’unico esperimento di inserimento della Svizzera Italiana in una corrente teatrale nazionale (anzi nazionalista). Il Festspiel, sulla falsariga delle indicazioni di Rousseau, è un tentativo di far partecipare direttamente il popolo alla realizzazione di spettacoli che trattano della sua storia: dotato di una lunga tradizione al Nord delle Alpi, il genere trova qualche realizzazione anche in Svizzera Italiana all’approssimarsi della guerra, per ovvi motivi di “difesa spirituale”. Non bisogna però esagerare la portata del fenomeno: se dal profilo storico queste realizzazioni ci offrono molti motivi di riflessione, dal profilo estetico rari sono stati gli spartiti, e ancor meno i testi (dove troviamo una vera e propria galleria degli orrori patriottico-poetici) di un qualche valore.

Verso un Teatro della Svizzera italiana  s’intitola la seconda parte. Quali sono gli eventi, le iniziative principali che ha voluto sottolineare? Quali le scoperte nelle quali si è imbattuto? 
Nel dopoguerra, buona parte delle iniziative teatrali (compagnie) escono dai ranghi della RTSI, non senza conflitti: il lavoro radiofonico è enorme, la gerarchia non sempre favorevole a una dispersione delle forze sul territorio. Il punto d’approdo e proprio il Teatro della Svizzera Italiana, nato per iniziativa di Peter Bissegger e della TSI (con molti soldi cantonali), che arriva a coronare un sogno, quello del teatro totalmente professionistico e autoctono. Bizzarramente questo coronamento istituzionale arriva troppo tardi, quando già la scena locale ha cominciato a ripopolarsi in modo esteticamente e organizzativamente esterno alla RTSI. Il mio studio arriva fino alle polemiche contro il TdSI, che mettono bene in evidenza le tensioni ideali esistenti nella scena svizzera di lingua italiana. Tra le scoperte più interessanti, addirittura emozionanti, citerei almeno quella relativa al Teatro Prisma (1956-59), di cui si avevano vaghi e imprecisi ricordi: il formidabile archivio di Franco Passatore, a Milano, ha potuto dimostrare le ambizioni e la lungimiranza di questa compagnia, per cui hanno lavorato anche molti artisti locali, da Ketty Fusco a Franca Primavesi, da Dimitri a Raimondo Rezzonico.

Tra le figure di spicco troviamo qui Canetta, del quale lei ha intenzione di occuparsi particolarmente in futuro. Quale ruolo e influenza il regista e attore ha esercitato?
Canetta è certamente l’unico artista (fino all’inizio degli anni ’80) che ha saputo riunire in sé capacità organizzative, passione pedagogica, e una grandissima qualità innovativa ed estetica. In essa si fondevano le sue origini grandattoriali, la conoscenza profonda del teatro di regia e la curiosità permanente e vigile relativa al nuovo teatro (Grotowski). Canetta ha fatto tutto: il teatro radiofonico, il teatro con i giovani, il teatro in carcere, la ri-attualizzazione di un Festspiel, la fondazione di varie compagnie, con ambizioni universali e attenzione al radicamento locale. Ed è stato al contempo un carattere forte, individualista come ogni artista esigente non può che essere. Proprio per questo il mio prossimo lavoro di ricerca vorrebbe occuparsi in particolare di lui: dopo cinque anni (e 550 pagine) spesi nella ricostruzione storica (interessantissima, ma che tende a mettere tutte le manifestazioni spettacolari un po’ sullo stesso piano) è giunto il momento di rimettere l’estetica al centro del teatro e non solo il teatro al centro del villaggio: vale a dire di occuparsi anche della qualità teatrale della rappresentazione, del rapporto tra “il nostro” Canetta e il teatro europeo, ed anche delle difficoltà di impostare un discorso artistico – per sua definizione unico, radicale, cocciuto – in una realtà culturale provinciale che tende per sua natura a diffidare delle “teste calde” e delle “idee forti”.

Nel 1975, il Rapporto Clottu, di cui parla anche la sua ricerca, auspicava la nascita di almeno una piccola compagnia teatrale in un Cantone, dove però già operavano Dimitri, Poletti; il Teatro Pan sarebbe nato proprio quell’anno. Adesso soltanto nell’associazione dei teatranti professionisti, il TASI, ci sono più di una ventina di compagnie… Troppe?  Qual è il suo giudizio sulla situazione attuale?

Il Rapporto Clottu dubitava, più che auspicare. E parlava, per il teatro, in modo assai rozzo, di un deserto culturale (come si fosse arrivati a queste conclusioni è un mistero che vorrei in futuro poter elucidare). Fu un colpo durissimo per la scena svizzero-italiana: reagirono con veemenza sia i settori istituzionali (Grytzko Mascioni), sia i giovani (il Teatro Pan nacque dichiarando di essere una risposta a questo Rapporto). Fu, alla fin fine, uno stimolo, una frustata che incitava a guardare al teatro come a un elemento fondante della cultura. Veniamo all’oggi: mi infurio quando, di fronte al rigoglio (di generi, forme, esperienze, pubblico toccato) dei gruppi teatrali locali, si osa dire che è “troppo” in nome dell’economia! Quando la cultura nasce per passione spontanea, per contagio estetico (penso al ruolo di Canetta, Dimitri, di Cristina Castrillo) dobbiamo esserne fieri, non spaventati. Non si dica che siamo in un momento di crisi, che i soldi sono pochi e che non si possono scialare: è proprio quando siamo in crisi (non solo economica, ma soprattutto culturale!) che occorre il teatro, la creatività che con passione sa metterci di fronte a uno specchio (deformante) e alle nostre contraddizioni.

 

DOCUMENTI

Il teatro in Svizzera Italiana si professionalizza: qualche documento dalla RSI degli anni ‘30

Lettera di Felice Antonio Vitali a Guido Calgari, 28 dicembre 1935 (Lugano, Archivi di Cultura Contemporanea, Fondo Calgari, F3): “Premessa: Siamo d’accordo, per precedenti lunghe conversazioni, di assumer per prova tre attori e un’attrice, durante il periodo 29 nove.-15 dicembre. […] Condizioni agli attori: 1) Prestarsi a tutte le commedie del periodo indicato, agli ordini del regista. 2) Prestarsi per letture di conferenze, agli ordini della Direzione. 3) Dovranno trattenersi a Lugano nelle sere in cui le prove sorpassassero l’ora degli ultimi treni.  4) Potranno essere incaricati di dare istruzioni ai dilettanti, circa la pronuncia e l’azione scenica. 5) La signora De Riso (letture bambini…). 6) Nel caso di spettacoli Pro-Radio, dovranno prestarsi a recitare su palcoscenico. In tal caso potrà essere loro corrisposta una tenue indennità. Essi riceveranno, per i 17 giorni di prestazioni un onorario di: Chiostri: 400-20; Galeati: 420-30; De Riso: 430-50. (Questa lettera mostra il modo con cui la RSI, tramite un sistema misto di attori professionisti e dilettanti crea una vera e propria compagnia (atta anche a calcare il palcoscenico).
Si veda il commento di Guido Calgari, che è anche una vera e propria dichiarazione di estetica:
« 
Il problema degli interpreti ha urtato contro difficoltà non lievi fin dalle prime trasmissioni della Radio Svizzera italiana. Gli attori locali – che non possono essere considerati che dei dilettanti, per ora, sottoposti ad una intensa ed assidua opera di educazione da parte nostra, hanno senza dubbio fatto immensi progressi, sia nella lettura, che nella chiarezza e nella esattezza della dizione. Non per questo, tuttavia, si può affermare che il problema di creare degli attori ticinesi nel senso completo della parola sia di facile soluzione ; e ciò per parecchie ragioni ambientali, fra le quali accenneremo alla mancanza di tradizioni teatrali, alle caratteristiche dialettali e allo spirito provinciale, quest’ultimo inteso nel senso limitativo che impedisce la spontanea trasfusione della personalità dell’artista nel personaggio da crearsi”. (G.C., Chiaroscuro, “Radioprogramma”, n. 30, 1° agosto 1936).