Disgusto e desiderio. Enciclopedia dell’Osceno, a.c. di Martino Doni, Milano, Medusa, 2015.
A quarant’anni dalla morte, oscena, di Pier Paolo Pasolini, artista osceno, è giunto il momento per riflettere con tenacia su un argomento che pochi come lui hanno contribuito a mettere a fuoco. L’osceno, appunto. L’osceno non si può archiviare facilmente, non si può ridurre a questioni di etichetta, di buone maniere, di convenienza (« questo non si dice », « questo non va bene »). L’osceno è molto di più, o meglio: è sempre qualcosa d’altro. Come il sublime, l’osceno agisce da attrattore infinito per la creatività umana: muove dal basso, dal degrado delle periferie, dalla pancia della cultura popolare, dagli organi e dalle sensibilità da sempre considerate inferiori… e tuttavia il suo potere è sommo. La sua virtù è quella di provocare, di impedire che ci si attardi nel solco delle proprie certezze, che ci si accontenti del proprio ordinamento accomodante, che ci si pieghi alla tirannia del proprio realismo. L’osceno turba la tranquillità degli assiomi, ridisegna i confini tra il dicibile e l’indicibile, cancella le distanze e ridistribuisce gli onori e gli oneri dell’organizzazione culturale. Se è vero, come sostenne Walter Benjamin, che cultura e barbarie sono in simbiosi, l’osceno è per così dire il propulsore, il combustibile di questa continua, vitale convivenza. I saggi qui raccolti intendono seguire e sondare questa provocazione; intendono cioè raccogliere la sfida, accettare e sviluppare la complessità che l’osceno rappresenta.
Saggi di: Pietro Adamo, Pietro Barbetta, Andrée Bella, Fabio Cleto, Martino Doni, Massimo Giuliani, Pierre Lepori, Silvia Mazzucchelli, Roberto Medeghini, Davide Novarria, Andrea Ponso, Igor Salomone, Stefano Tomelleri, Enrico Valtellina, Sergio Zorzetto.
« Confrontato alle nuove estetiche performative e al pervasivo «pseudo-mondo» spettacolare (per utilizzare la celebre definizione di Guy Debord), il teatro si reinventa in forme postmoderne che sconvolgono definitivamente la gerarchia dei generi e la separazione tra le arti. Quest’evoluzione è importante da capire, per situare in modo corretto la presenza, spesso incompresa, dell’osceno sui palcoscenici contemporanei. Ciò che prima era escluso del mostrabile decoroso (il mostruoso della mostrazione da baraccone) non è più la provocazione di corpi esposti nella loro nudità rivoluzionaria o l’appannaggio del comico, ma un’ontologia corporea che si fa scrittura, secondo la definizione di Jean-Luc Nancy: «non la mostrazione, né la dimostrazione, d’un significato, ma un gesto per toccare il senso. Un tocco, un tatto che è come un modo di rivolgersi [une adresse]». In questo senso, e riferendosi chiaramente a Nancy, Marie-Christine Lepage parla di «stati corporei in scena, contesi [écartelés] tra una figurazione mimetica esplosa (brandelli singoli di storie, frammenti di personaggi, a malapena abbozzati nei Castellucci o in Meg Stuard) e figure che si presentano come grumi [agglomérations] di sensazioni (l’esserci dei corpi-materia obesi o scheletrici in Castellucci, spinti fino ai limiti dell’organico in Jan Fabre o Rodrigo Garcia». I fluidi e le materie organiche tornano ad abitare con violenza le opere dell’avanguardia, da Paradise Hotel (Hotel Fuck) di Richard Foreman (1998) al Giulio Cesare della Socìetas Raffaello Sanzio (1997). Nel 2005, la presentazione alla Corte d’Onore del Palazzo dei Papi di Histoire de larmes di Jan Fabre, «artista associato» del Festival di Avignone, scatena una polemica che è destinata a segnare fortemente il teatro d’inizio secolo, opponendo coloro che rivendicano la necessità di un testo o di una testualità agli entusiasti di una scrittura di palcoscenico che integra le arti visive e la performance fino ai limiti della brutalità. L’artista fiammingo fa scandalo «rivendicando un corpo umido, vivo, gaudente e libero, lontano da ogni riserbo e da ogni disinfezione [aseptisation]», in un’edizione del festival accompagnata dalle performances di Marina Abramovich e dalla crudezza degli allestimenti di Gisèle Vienne e Dennis Cooper (I Apologize) o di Romeo Castellucci (con l’episodio berlinese della Tragedia Endogonidia): un teatro «che sconvolge, mette alla prova, interroga. E che offre a ognuno la possibilità di un viaggio nella tragedia intima». L’artista romagnolo è certamente l’esempio conclamato – adulato da molti registi contemporanei – di un osceno ontologico del teatro contemporaneo: non è affatto causale che Castellucci rivendichi come soli influssi determinanti il Riccardo III di Carmelo Bene e Punto di rottura dei Magazzini Criminali di Federico Tiezzi, in una linea tutta italiana che a partire da Grotowski e Barba (a Pondedera) ha irrigato una serie di artisti operanti alla fine del Novecento, da Leo De Berardinis a Ricci e Forte, passando per Otto dei Kinkaleri e Barboni di Pippo Delbono. Il teatro di Castellucci «compie il lutto di una storia da raccontare/commentare, (…) si apre a un corteo di figure, interroga la forza e la densità della luce, eleva gli umori al rango di eroi e rende realtà drammatica alle innumerevoli metamorfosi della materia, dei suoi colori e delle sue forme in movimento». Parole che sembrano far eco – per restare in ambito culturale italiano – al folgorante incipit del Macbetto di Giovanni Testori:
Merda, sangue, merda!
Cos’è la guerra
Sia che si svincia,
sia che si perda?
Merda sangue merda!
Riesci a vardarmi te?
Sangue vardo, sangue e merda,
merda e sangue come in me! »
«Obscenity is joyous»: il ritorno del rimosso sulla scena occidentale
(Pierre Lepori, estratto)
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